martedì 4 dicembre 2012

A risentirci. (chiamami col tuo nome)

Quanti modi per dirsi addio. Per darsi un addio cordiale. Per darsi un addio silenziosamente ma a gesti pattuito. Per darsi un arrivederci o un arrivederci a mai. Per dirsi che ci si è conosciuti senza aver mai avuto la possibilità di conoscersi. Per dirsi che tutto è tornato come durante la sensazione sentita al primo secondo quando siamo partiti con il classico "pronti, partenza, via". Perché siamo una corsa con e contro tutto. Quanti modi per dirsi addio. Correndo ad esempio ci si può dire addio. Come chi ha corso insieme a te e all'improvviso ti consiglia una scorciatoia per stare finalmente solo senza la tua presenza, ancora prima dell'arrivo. Disperarsi nel buio della scorciatoia? Non so. Se ne vale la pena, dico. Tanto ci si può dire addio anche con un ritorno. Non ci credi? Ti dico: provaci. Ritorna. Non sai dove? Pensaci. Perché tanto ovunque vada, non c'è miglior complotto nè migliore aspettativa creata di ciò che è percepibile guardandosi allo specchio. Pensaci. Chiunque torna da qualcosa prima di arrivare ad un punto. Torna, perché non c'è strada più sicura di quella già percorsa.
-"Non ci credi?"
-"Non ci credo?"
-"Dimmi tutto."
-"Dico tutto."
-"Non penso sia così.."
-"Non penso."
-"Perché dovrebbe essere?"
-"Perchè non dovrebbe essere?"
-"Davvero, mi spiazzi."
-"Ali di mercurio."
-"E quindi?"
-"In termine 2012"
-"Sinceramente bestiale il moto al luogo."
-"Sono sparito. Vedi?"
-"Ho emicrania. Ernie infiammate. Cancrena cerebrale."
-"Nell'arrivo vi è sempre un abbandono."
-"Non so cosa risponderti."
-"Diremo questo: non so risponderti."
-"Ma qual è il tuo vero nome?"
-"Quante idizie nei tuoi demoni inventati. A risentirci: in una sparatoria di ricordi."
-"A risentirci."
 
 

venerdì 12 ottobre 2012

ウインディ

Quante parole del cazzo concepisce l’umana demenza. che siano invece furiose notti assonnate diluite in insonnie degradanti dormienti a occhi aperti come solo i pesci sanno fare: intelligentemente.

Gen.Zero.


Siamo Gesù cristi che vivono una insonnia degradante in attesa di poter lasciare vuoto questo sepolcro. Questo vuoto che non è tanto mancanza quanto mancanza di tutto. Questo vuoto che si affanna là dove un troppo si stabilizza o un troppo viene destabilizzato. La realtà è che siamo cani in attesa di ricevere mani. La realtà è che siamo schizofrenici solo per poter vantare di riuscire a fare orge in due. La realtà è che chi è figlio della Seconda Repubblica, come essa, mai è nato. La realtà è che siamo bipolari: l'immagine che vive è la rappresentazione del ricordo di un futuro migliore di chi ci ha concepito. La verità è che i vostri figli ancora non sono nati.
 
 

domenica 16 settembre 2012

Che più non sia alfabeto.

Non lo so. Non so nulla. Scusami. Fragile schema. Ripetuto. Labile. Attonito. Fruscio indomabile.
Plastica frastornata. Tosse fosforescente. Alibi colpevole.
Microsoft.
Dalla nera scatola parlante "Informazione e potere in Italia".
Dal corridoio ventitrè ottobre milleottocentouno.
De Sade mi scopa.

giovedì 13 settembre 2012

Oggi: Milano una trincea di alberi sbagliati. Milano: un'ape dietro al collo.



no place
prematuro:odore come legna bruciata.
vile:profumociliegia.                                    

02.22
A Lei le A Lei le A Lei le A Lei le.

sabato 25 agosto 2012

Divenire.


Starai osservando la metamorfosi del nulla, ora. Fra bollicine sorridenti ed eclissi idriche sei.  Non un pensiero ti sta rendendo partecipe del tuo non essere per quanto fra qualche giorno sarai. Ancora poche ore di qualcosa che noi possiamo paragonare al sonno dovrai vivere, se è questo quello che già stai facendo. Sarà questione di attimi e dopo di che in un secondo sarai sveglio e la tua prima dolce tenebre abbandonerai.
 
Quel secondo sarà vita.
 
Sereno, fra le braccia di chi ti ha generato e come se nulla fosse già qualche raggio di luce carezzerà i tuoi lineamenti.

Ho letto: “Quando si termina di crescere si inizia a vivere nella morte ma fino a quando non si vede nessun altro crescere o nascere di questo non ci si accorge."”.
 
 

mercoledì 30 maggio 2012

Madre di emigrati.

Trenta maggio duemiladodici.
Trenta giorni dopo la tua morte.
Rose di parole ancora non dette.
Trigesima.

Parole seguenti concepite nel giorno ventisette aprile duemiladodici, tre giorni prima della tua morte.
Trani. Nella tua cucina.


Mi chiedo il perché alcune cose vengano in mente solo nel momento in cui non possono essere più attuate. Avrei voluto, sì. Avrei fatto, anche. Tanti condizionali, uno solo: la vita. Devi sapere che mentre poche ore fa in ospedale carezzavo forse per l’ultima volta la tua mano, gran parte della mia vita ho visto scorrere nella mente.  Un ricordo in particolare è tornato laddove vivono i miei sadici elicotteri immateriali. Siamo metà anni ’90, la luce in questa visione è immensa. Mai potrei confondere la luce di questi anni poiché in essi c’è il riflesso di coccinelle imbalsamate; stupende, amabili, a pois, rappresentati della vivida natura. Eppure sono incastrati, tutti gli anni che li compongono rimangono così, imbalsamati. Io avevo forse sei anni, mia cugina che io ricordo con la faccia di una coniglietta ne aveva otto e suo fratello il cerbiatto poteva averne già dieci. Tuttavia la presenza di cerbiatto in questo ricordo non c’è fin dall’inizio. In principio ci sono solo io, coniglietta, la nostra zia e la nonnina. Affacciati ad un balcone, io e coniglietta guardavamo il mondo che per noi era rappresentazione di ingenuità, così come i nostri occhi del resto lo rivelavano. Cara coniglietta, adesso come percepisci il mondo? Triste è il giorno in cui il bambino, non più illuso, perde il piacere del Natale. Quel balcone è lo stesso a cui mi sono affacciato questa sera; non c’erano più castelli stregati, non c’erano più nemmeno le palme che facevano da immense torri. Ho solo visto una persiana e dentro di essa il buio, un balcone un po’ pericolante e delle terrazze con semplici piante, forse desiderose di cure. Arriva cerbiatto. Arriva cerbiatto che dice che vuole costruire una casetta di cartone come quella che abbiamo davanti ai nostri occhi. Coniglietta dice che non si può, perché le nostre casette sono finzioni. Cerbiatto dice che le casette possiamo toccarle ed usarle, quindi non sono finte. Ora io dico: cerbiatto aveva ragione. Ora io dico: coniglietta non aveva torto. Ora io affermo: tutto è vero, finta  è la finzione con cui ci ostiniamo a rappresentare le cose, finta è la finzione che usiamo come tramite per dipingere la nostra realtà. Una voce udibile da lontano ci distrae dai nostri sogni architettonici: speculatori di puerili illusioni. Quella voce poco scandiva le parole spalancate sul mondo al di là di un altoparlante, tuttavia il suono era sempre più intenso ed iniziava ad avvicinarsi verso il nostro balcone e verso i nostri castelli imbevuti di finzione. La zia che in effetti ricordo con la faccia di un’orsacchiotta ci diede mille lire, la nonna con il musetto di un volpino sottrasse dalla sua sottana una cinquecento lire. Io e cerbiatto ci affrettammo nel scendere le scale per fermare il camioncino che inesorabilmente continuava a emettere parole. Si fermò proprio vicino al castello e  qui io e cerbiatto comprammo dal venditore ambulante due gelati e un ghiacciolo, quest’ultimo per coniglietta. Vedevo la nonna che ci controllava dal balcone, seduta su una sedia a godere del bel sole il quale questa terra a giugno ricopre. Ricordo i suoi capelli ricci già un po’ ingrigiti e la sua veste larga ed estiva che scendeva fino alle ginocchia. Poi penso che ora è in ospedale, mentre attende l’avvenire della sua morte. Nessuno si è accorto del suo male. Penso a mia madre che rimpiange una vita da immigrata in una città non vicina. Non ha visto sua madre lentamente andare nel suo declino per curare come badante la madre di altri figli a loro volta emigrati lontano per fare i dottori. Emigrazione: non poter vedere tua madre morire, non poterla curare ad ogni sua paura o vederla invecchiare, non poter guardare le sofferenze dei tuoi fratelli, non poter nutrire anche solo attraverso lacrime la propria terra scottata e prosciugata dal sole, non poter curare quell’abbandono che rimane lontano nel tempo eppure presente ogni giorno in cui si aprono gli occhi e si è lontani dal luogo in cui il proprio corpo è nato. Ecco cos’è l’emigrazione: un continuo “non poter”. Prima di continuare a concentrarmi sulle immagini che costituiscono il mio ricordo d’infanzia, torna in mente quello che mi ha raccontato mia cugina coniglietta la mattina stessa di questo giorno, e cioè che la sua migliore amica sarebbe partita per lavoro verso la Germania, dopo anni di assoluta nullafacenza. Germania dove? Germania Monaco. Il suo primo volo aereo, mi disse. Non aveva in tasca un soldo. Il suo primo volo aereo coincide con il viaggio che probabilmente la porterà via per sempre dalla sua terra; diventerà un’immigrata. E chi curerà sua madre, quando ne avrà bisogno? Dietro le foglie dei fichi, dietro ogni balcone del paese addobbato con luci pendolanti in onore alla madonna in processione, dietro le strade sporcate dai volantini dei politicanti e dai petali di rose gettati dalle finestre in onore alla statua e dietro l’odore di gelsomini unito a quello di paglia bruciata inumidita, si nascondeva l’orrore, il pianto, la voce di una terra ancora silenziosamente ma violentemente abusata. Io sentivo le sue urla, la sentivo gridare dall’orrore di dover vedere i suoi stessi figli rinnegarla, maltrattarla, venderla alla corruzione. Terra maledetta. Terra maledetta, ho pensato.

Allora nel passato migliore io e cerbiatto ancora piccoli mangiammo il gelato stranamente senza sporcarci, parlando di chi saremmo stati da grandi. Io nel mio passato mi consideravo già un cantante, coniglietta sarebbe diventata un’attrice mentre suo fratello quel cerbiatto sarebbe dovuto essere uno che smontava i pezzi per poi rimontarli e rismontarli. Adesso forse non siamo più ciò che vorremmo realmente essere tanto quanto quello che banalmente siamo; noi stessi. Finimmo il gelato, coniglietta non volle più il suo ghiacciolo. Coniglietta mangiava sempre poco. La zia orsacchiotta disse che se una cosa non la si vuole non bisogna comprarla. La nonna che pareva davvero un volpino disse che almeno il ghiacciolo potevi mangiarlo. Non volevi nutrirti forse perché nel tuo cibo per te si nascondevano pietanze di critiche condite con sminuenti parole. Ora però voglio dirti qualcosa che già sai; nella commiserazione si nasconde il demonio vestito con amore blando, che col calare della sera tramonta per non farsi più rivedere lasciando l’amaro sapore dell’illusione; nell’indifferenza si nasconde l’odio che sotto queste vesti sorride di nascosto ad ogni nostro ostacolo e solo nella preoccupazione talvolta si nasconde l’amore, quello semplice che sbaglia nelle azioni, poiché nutrito da umanità per forza imperfetta. Adesso uno dei personaggi di questo mio ricordo sta andando via, anzi è già andato via. Allora mi viene da pensare ad una cosa: noi siamo finti. Noi siamo finti come le casette che cerbiatto voleva costruire, siamo finti come le illusioni che ci ostiniamo ad inseguire, siamo finti come l’esistenza dei morti. Poiché quell’essere era caro in vita, ma la morte tutto distrugge e il distrutto per definizione non esiste più, ciò che esiste è il solo ricordo del distrutto, è poi la nostra memoria che lo concepisce come un valore. La morte credo non sia un dolore o comunque il dolore che si sente è solo il riflesso della vita, che chiede di proteggere ciò può rigenerare il nostro essere umani. Ora anche lei che è morta è finta, finta come i capelli di una bambola e di fatto in essa più nessun ricordo è custodito ma anzi è lei divenuta memoria. Ecco, noi siamo finti finché non diveniamo custodi di ricordi che a loro volta custodiscono altre persone. Ora dunque vivono nei ricordi e per quanto alcuni  siano dolorosi, solo i ricordi incidono e noi solo incisioni siamo. Incisioni, che da un secondo all’altro terminano.


lunedì 14 maggio 2012

¿Komm?



Richiamo. Nostalgia per un mondo lontano come se fosse inesistente. Ceduto. Oblio tedioso, sei. Nostalgia atroce che pervade in ogni dove. Dove sei?  Sbadata menzogna, ridicola follia incantatrice di una pelle spenta acclamata da morsi affamati di esibizionismo… sospensione di ogni, attimi inaspettati di onirica illusione; oltre questo  il fallimento e il peso che bisogna portare dietro.

martedì 24 aprile 2012

mio invecchiato custode..


Lo spettacolo mentale ha inizio con poco. Potrebbe bastare una lacrima oppressa nel fiero inclinatore che la trasporta al contrario. Credo nell’amore ad un tratto mi sono detto. Mi sono anche detto mai più pensare, nel momento in cui pensavo di non pensare. Sarei voluto tornare infante. Illuso. Giocatore; infante. Quel bambino non c’è più, quel sano bambino si è smarrito là dove si è fermato. Sta giocando con la sua macchinina preferita rossa e gialla e azzurra.  Per caricarla serve una chiave; dimensione fallica da infilzare in un buchino. Se stai male andiamo dalla dottoressa. Cambiati le mutandine, andiamo dalla dottoressa. Da bambino facevo finta di essere adulto. Quando diventerò adulto farò finta di essere un bambino. Io in realtà pensavo che i grandi curassero i bambini per invidia,  gli sportivi fossero dei bimbi a tempo perso e le maestre custodi di un sapere che a lungo dimenticano di esserne a conoscenza. La domenica non era triste. La domenica non era triste. La domenica. Non era triste. Il mio dovere era il catechismo, ascoltarlo andando in chiesa. In realtà non era solo mio quel dovere. È che gli adulti spesso riproducono le loro colpe sui propri creati. Gesù risorto. Gesù risorge e lascia vuoto il sarcofago. E dove va quando risorge? È in tutti noi. La domenica non era triste. La domenica non era triste. Giocavamo e fra i  nostri giochi c’erano dei ladri, ladri con sembianze temporali che rubavano attimi di pura ingenuità. Com’è teatrale il passato fallito. I nostri genitori ci guardavano nelle nostre illusioni credute da noi realmente esistenti. Il mio angelo custode era ancora vivo. Adesso mi guarda mentre profano bulimie di parole e di immagini rappresentanti i miei peccati. Quando penso mento fra i miei peccati. La mia pelle è più scura perché macchiata dall’ amore e dai peccati. Vorrebbe urlare e il suo silenzio lo sento nel limite delle mie grinfie isteriche. Sì, sento la mia pelle urlare. Fatevi accarezzare, che domani più non sarete così deliziosamente forti della vostra innocenza e in un domani sarete sempre più vicini a noi, mentre saremo costretti ad allontanarci. Sento mio padre chiedere umana comprensione, rapporti di dolcezza col nulla rimasto. Lento è il suo svanire. Chiudo gli occhi. Vedo la sua vita che guarda scorrere quella degli altri. Facciamo questo, quando fuggitivi i nostri sguardi si incrociano: vediamo scorrere la vita. Mi chiedo se anche io lascerò una vita crescere su questa terra. Mio padre probabilmente inizia a chiedersi se anche lui lascerà una morte su questa terra. Osservo il nulla che si congela nel suo  non essere. È vero che sul vuoto di un sarcofago costruiamo? Forse, mura di eclissi sospette erigiamo dove semplicemente già c’è qualcosa. Siamo per natura esseri inclini all’eutanasia. Uccidiamo giorni infelici per sostituirli a dei giorni di gioia impraticabile. La gioia mi fa ridere: solo mancanza di solitudine tradita dall’illusione data dalla sua stessa assenza. Passano i giorni. Passa tutto. Costruiamo  passaggi e incroci perché noi ci incrociamo nel nostro essere di passaggio. Eppure il movimento non rende frenesia: essa è un ripetersi di crudele danza di mutamento. La frenesia è tipica del silenzio, dell’immobilità in turbamento per il collasso che non percepisce tempo. Non si muove, la frenesia, nel suo ripetersi.
Stai leggendo i miei peccati ora, mio invecchiato custode. So che questa luce abbagliante sono tue implorazioni che ricordano mia misericordia perché sono i morti che pregano per i dannati ancora viventi e non il contrario. Loro vengono contornati di invisibile freddura d’incenso quando fuggono verso i nostri corpi iniettati di reale e ci baciano sulla fronte così come noi sfioriamo con la bocca – fulcro delle nostre vertiginose lussurie - le loro lapidi. E ci guardano mentre recitano caritatevoli poesie; “Perché non muori mai, io ti amo di luce intensa, io ti voglio già qui, l’ombra umana più non avrai, voglio vagare in eterno insieme a te, cos’è la vita in confronto” penseranno nella loro materia inesistente tant’è immensa la loro voglia di poterci dire il vero in contrasto con la vita. I defunti sono immersi nel loro vagare vivendo una sconfortevole frenesia e solo i viventi, rimangono immobili al cospetto dei loro sepolcri. È tua questa luce che si rispecchia nella misericordia a me dedicata. Questo bagliore è una tua scia vagante, a meno che tu non sia risorto. Il mio vuoto comunque è rimasto. La domenica non era triste. La domenica non era triste. La domenica. Non era triste.

giovedì 12 aprile 2012

Parole già partorite

"La bandiera era verde, spiegava Palla di Neve, per rappresentare i verdi campi d’Inghilterra, mentre lo zoccolo e il corno simboleggiavano la futura Repubblica degli Animali che sarebbe sorta quando la razza umana fosse stata finalmente distrutta. Dopo l’alzabandiera tutti gli animali si recavano in truppa nel grande granaio per un’assemblea generale che si chiamava Consiglio. Qui si tracciava il piano di lavoro della settimana entrante e i progetti venivano esposti e discussi. Erano sempre i maiali che esponevano i progetti. Gli altri animali capivano come dare i voto, ma non riuscivano a concepire in proprio alcun progetto. […] Tutta la fattoria era profondamente divisa a proposito del mulino a vento. Oltre la questione del mulino, vi era la questione della difesa della fattoria. Come sempre palla di neve e Napoleon erano in disaccordo. Nel Consiglio della domenica successiva la questione se i lavori del mulino a vento dovessero cominciare o no fu posta ai voti. Quando gli animali furono tutti riuniti nel grande granaio, Palla di Neve si alzò e, benché talvolta interrotto dal belato delle pecore, espose le sue ragioni in favore della costruzione del mulino. Poi si alzò Napoleon. Egli disse tranquillamente che il mulino era una sciocchezza e che il suo consiglio era che nessuno votasse per esso; poi subito sedette. Non aveva parlato che per trenta secondi. Ma proprio allora Napoleon si alzò e gettando una strana occhiata di traverso a Palla di Neve emise un altissimo lamento, quale nessuno l’aveva mai sentito emettere. A questo rispose un terribile latrato, e nove enormi cani che portavano collare fecero irruzione nel granaio. Essi si avventarono su Palla di Neve che balzò dal suo posto appena in tempo per sfuggire alle loro feroci mascelle. Napoleon, seguito dai cani,  annunciò che da quel momento le sedute della domenica mattina sarebbero state sospese. Esse non erano necessarie e non costituivano che una perdita di tempo. Nonostante l’emozione provocata dall’espulsione di Palla di Neve…. gli animali furono costernati da questo annunzio."

venerdì 30 marzo 2012

Io sono Euridice.

 
 
Io sono Euridice. Bellezza che svanisce.Io sono Euridice. Bellezza violata da dimensioni duplici di verghe spastiche. Io sono Euridice. Occhi increduli fra tenebre con sorrisi di lacrime donate alla speranza, all'amore. Io sono Euridice. L'attesa che copre il volto con quelle speranze già esaurite. Io sono Euridice. Paradosso del rinvigorimento deceduto.
Io sono Euridice. Dubbiosa nella tenebre fisso il fondo degli inferi. Io sono Euridice. Creatura infestata da crudele masochismo divino. Io sono Euridice. Bestemmiatrice di luci pericolanti. Io sono Euridice. Goditrice di un'illusione. Per quanto vera. Io sono Euridice. Portata lontana, quasi al varco. Io sono Euridice. Vidi luce, dopo miserevoli accecamenti tediosi. Io sono Euridice. Vidi luce, al seguito di una lama chiamata amore. Io sono Euridice. Vidi luce, con fatale umanità roteò il suo capo. Io sono Euridice. Allontanasi la luce e il mio finire indietreggiante come se nulla fosse stato. Io sono Euridice. Gli occhi lamenti di pelle squartata dal mio sguardo donante meritevoli compiacimenti. Io sono Euridice. Catastrofe raggirata dal destino luttuoso. Doppiamente luttuoso. Io sono euridice. Bellezza svanita.
            
Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.
Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.
Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.
Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.
Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.
Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.
Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.
Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.
Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.Io sono Euridice.



sabato 24 marzo 2012

S13.

Io ho sempre creduto che le città degli esseri umani, dall’ultimo attimo di luce fino al primo, si trasformino in splendide lune per indossare le migliori vesti  che opportunamente  tengono nascoste, in un folkloristico oblio. E si vestono, si coprono, come mai potrebbero pensare di fare durante il giorno. Perché le città, più che per chi, sono come chi le vive. Chissà perché, Milano corre con quell’irrefrenabile voglia di non perdere nessuna occasione, nessuna stravaganza, nessun treno e nessuna coincidenza e forse con quella inconsapevolezza di aver perso tutto tant’è estrema la mania del dolce far ogni cosa. Di notte, però, per alcuni soggetti non è così. Di notte sono i desideri a modificare i nostri lineamenti e Milano - atroce dolcezza - si trasforma in folle bellezza.. paurosa com’è di far vedere alla luce del giorno ciò che è; madre di tutti, perché figlia di nessuna. Fra le finestre di un tuo qualsiasi corso si nascondono indubbiamente esseri infelici; c’è chi ha deciso di essere figlio tuo e di non essere più ricordato dalle sue radici lontane e in chissà quale lucente capitale mediorientale, poi ci sono figli che maledicono il tuo essere così silenzioso e maldestro nell’offrire la possibilità di sbagliare talvolta irreparabilmente nelle trappole dei vizi. Tu, Milano, sei generosa anche nella tua cattiveria che tutti noi sappiamo essere la tua arma per darci considerazione. A marzo già ti vesti con un po’ di sole non troppo lucente e con un profumo di azzurro spento nell’aria. Chi non sente quest’odore io credo non ti abbia voluto conoscere abbastanza. Quella sera c’era del sangue colante da quanto immensa era la tua voglia di piangere dalle vene il  tuo insano masochismo con il quale tieni vicine le persone care facendole allontanare. Cosa mi darai in cambio? Un bilocale in una piazza con una statua di qualche illuminista, increduli della defecazione dei volatili? Un tempo indeterminato? Una follia perseguibile? Un amore a distanza a Palermo? Non so, a dire il falso. Per ora io mi perdo nei tuoi percorsi e nel tuo dover scappare proprio nel momento in cui sei appena arrivata correndo per restar lì poco meno di un attimo in cui tempeste ci rendono instabili. Mi perdo ovunque, consolandomi pensando che ci si può perdere solo se si ha una meta. Meglio di niente direi. Quante coincidenze rendi possibili sotto portici illuminati o vicino a lampioni scarabocchiati o in chissà quale altro tuo non luogo.

pro-ssimafermata milànomissori” diceva una voce inesistente comunque in grado di ricordarmi che devo scendere per poi attraversare le strisce pedonali per poi scendere sotto terra dove abbiamo costruito un nuovo mondo di stazioni.  Non avrei perso la metro se ci fossero stati quattro scalini in meno, e invece arrivo all’ultimo che la metro era già partita. Pazienza, per almeno cinque minuti e mezzo di attesa. Ho una certa mania io per le metropolitane; di solito nell’attesa cerco un posto della stazione in cui fermarmi e aspettare lì l’apertura inevitabilmente giusta delle porte e dello scompartimento… credo sia importante scegliere il luogo migliore, se questo devi condividerlo con altri esseri umani, per quanto la durata possa essere breve. Poi ho scoperto che l’intuizione non mi ha deluso. Ho iniziato a guardarti nel momento in cui sicuro un pensiero potente era in grado di annebbiare la vista per ogni silenzio percepibile da altri corpi generatori di emozioni nuove, impacchettate, non riciclate. Affossavo lo sguardo nel mondo, ad ogni sguardo che non mi hai donato. Gambe accavallate, tu qualcosa aspettavi. Una telefonata è arrivata. Ho sentito la tua voce. Non eri proprio figlio di Milano anzi, ho iniziato a chiedermi se avessi la percezione di dove fossi o forse semplicemente iniziavi a essere dove poco prima eri ma non c’eri più. Avrei voluto conoscere la tua mente, parlare dei tuoi problemi, escludere ipotesi, annuire alle tue domande retoriche. Avrei voluto conoscere la tua casa e i particolari delle tue mani che inesorabilmente sfregavano su un jeans a sigaretta grigio scuro nell’attesa di poter gesticolare per aggiungere enfasi ai tuoi pensieri uccisi da una rabbia, che si leggeva negli occhi. Perché non hanno avuto il coraggio di battere indulgenti sembianze al vero? Perché tu lo sai -perché tu poi l’hai capito- io tutto questo l’avrei tradotto con un tuo sguardo. La testa la tenevi appoggiata sul finestrone e su strisce gialle e su cartelloni che ci ricordano che è vietato suicidarsi in quel luogo e certo, lo fanno con frasi fatte e indirettamente. Ma il senso quello è. Io dovevo scendere e sapevo che quella sarebbe stata anche la tua fermata, perché il viaggiatore o chiunque non si ritenga arrivato alla propria destinazione si riconosce da quella compostezza che si tiene quando non si sa con chi abbiamo a che fare. Le tue azioni erano decise, i tuoi movimenti turbavano i miei umori tangibili perché sapevo che non per troppo tempo poteva durare la nostra non relazione. Milano Rogoredo. Sono incredibilmente in anticipo all' appuntamento di quella sera. In un certo senso non ho percorso la strada che avrei comunque dovuto fare, ma ho seguito la voglia di poter avere l’ultima occasione per catturare un tuo sguardo, percorrendo la tua strada. Appena uscito non ho più visto nulla che potesse somigliarti ma dentro di me qualcosa che ha nutrito la nostra non relazione c’era e sapevo dove avrei potuto trovarti. Sono entrato nella stazione ferroviaria, dove tutti aspettano qualcosa e mi piaceva pensare che io in realtà non stessi aspettando niente ma anzi ciò che cercavo era lì, davanti a me. Mi hai guardato ma la distanza fra noi era troppa per poterci davvero vedere. Ma questo è relativo, ci si può guardare senza vedersi, ne sono convinto. Se penso che voglio vedere qualcosa allora in un certo senso la sto guardando. Si chiudono gli occhi e guardiamo immagini talvolta mai viste o spesso mai più riviste… più che l’immagine spesso riusciamo a idealizzare nella nostra mente la voglia di rivedere l’immagine, ma non l’immagine stessa. Io sono sicuro, il tuo sguardo si è posato sui miei contorti umani. Un arrivo ed una partenza ha colpito per sempre questa storia d’amore. Io, fondamentalmente, ero arrivato ma il tuo S13 per Pavia ti obbligava ad abbracciare una partenza… perché il mio egoismo non poteva non farti raggiungere il tuo arrivo, malgrado la mia convinzione che mi faceva credere a una tua visione sempre più sbiadita in quanto possiamo incrociarci, potremo incrociarti, potremmo esserci già incrociati ma mai ci fermeremo nello stesso punto, perché questa è la punizione per vivere la nostra non relazione. Possiamo rivedere persone che mai abbiamo realmente visto? Voglio pensare che ci ritroveremo in qualche stazione ad aspettare treni in direzioni diverse, probabilmente sentiremo di essere vicini in qualche contrada di Madrid o per delle strasse di berlino. Ci ritroveremo nei luoghi dove nostri simili vivono e depositano ricordi in cui hanno vissuto la loro vita, costretti ad abbandonarli lontani da loro, ma abbandonati là dove quei ricordi sono nati cioè negli angoli di città straniere e di passaggio  o in qualche letto di albergo fra le lenzuola usate da gente che non c’è più o che lì ha depositato un amore o una lacrima nostalgica della propria casa.   Marc augè sbagliava; nei non luoghi noi ci incontriamo se pur a una condizione di non incontro; noi ci incontriamo e scambiamo e nutriamo le nostre esistenze. Io e te, non abbiamo scambiato una parola che avrebbe potuto rapire ognuno dalla propria vita per viverne una nuova di colore amianto, con riflessi che si nutrono della luce del sole. Ma cosa potersi dire, quando la mania si rende traduttrice del nostro tempo speso a sfamare le nostre emozioni riciclabili da un corpo all’altro? Cosa poter fare quando ci si rende conto di poter comunicare anche senza parola? Si rimane senza di esse, increduli che queste siano solo evocazioni di immagini.. che forse esisterebbero anche senza un nome. Troverò certamente in quello di qualcun altro ciò che ho creduto di aver trovato sul tuo viso, ne sono sicuro. In questo modo è come se trovassi te ogni volta che ho il desiderio di rivedere la tua immagine. Ne sono sicuro. Compra un souvenir dalla Pavia e poi abbandonalo; è nella inconsistenza dei giorni spesi nel nulla che il superfluo  esistenziale ci rende una sdegnosa rendita emozionale.

mercoledì 14 marzo 2012

Bilocale.61


Ci sono delle scatole da portare via, piene di tutto e alcune piene di nulla. Posso assolutamente palpare tutto ciò che potrebbe esserci dentro questi contenitori e immagino dei libri da cui bere verità collassate, dischi in cui si sono spenti e illusi desideri, dizionari per parole mai sentite, oggetti di plastica da poter buttare assieme a dei DVD o videocassette, le miserevoli fallite dal tempo.
Poi ci sono pupazzi reduci di un anomalo amore -questa ingannevole sconosciuta- pesanti come macigni stratificati da pensieri fluidi. Penso di poter vedere persino dei biglietti di un passante ferroviario perennemente in ritardo io, tanto da riuscire ad arrivare in anticipo per il prossimo utile. La sua data -io vedo anche questa- è 13 febbraio 2007. Color pesca è il suo destino. Assieme a questo biglietto non c'è solo un pezzo di carta sbiadita dai giorni che non vogliono far altro che passare; c'è un febbraio dolce col retrogusto amaro, un sole che non posso dimenticare – stranamente presente per essere in una realtà come quella a nord di Milano. C'è addirittura uno sguardo che guardava il vuoto di un altro sguardo; è che nell'errore viviamo solo per imparare poi la soluzione ultima, ingeriti da ingannevoli presagi corrosi da armonie disabili. Io attraverso quel biglietto ferroviario vedo una distorsione che il 13 febbraio 2007 pareva perfettamente retta. Strano come talvolta qualcuno o qualcosa riesca ad andare via, pur rimanendo immobile nei lineamenti di un giovane corpo triste. Ci sono altri biglietti degni di nota, senza data. Provo a immaginare cosa potrebbero suggerirmi biglietti indeboliti da questa loro mancanza; mi insegnano che siamo poco più che date, scanditi dal tempo... regolatore della nostra vita in fiamme. Non solo cose materiali ci sono, per quanto in una scatola ci sia uno spazio determinato. Ci sono amicizie e conoscenze logorate dal tempo che insensibili ci rende. Dentro ci sono pure volti anch'essi logorati. Ci sono parole mai dette che rimangono come lividi per un tempo indeterminato, costretti a sparire solo quando il loro essere cade nell'oblio di un dolore macinato da odori meschini di una legna bruciata fiacca di maestose gioie invernali.
Naturalmente ciò di cui sto parlando non è un trasloco, magari in un bilocale di poco più di sessantuno metri quadri. Ciò che penso di dover traslocare è uno spazio infinito oltre che indefinito, che non possono nemmeno le più auliche parole poter descrivere e fare immaginare alla mente cosa sia. Eppure non è un'azione inconsueta e penso che ciò di cui sto parlando venga fatto ogni giorno da ognuno di noi. Il trasloco è mentale allorché più micidiale perché è una dittatura che mi impone lo sterminio di pensieri che insalubri sembrano apparire. E allora altro non c'è che mettere in scatole tutto ciò e far sparire, dove ancora non si sa ma forse solo perchè non si vuole. Eppure questo istante sfuggì, come sa fare il beato all'orizzonte di un credente. Tutto è destinato a passare e talvolta pensieri vengono abortiti dall'inerzia, spregevole come cani arrossiti dal loro imbarazzo.
In fondo che cos'è la Terra, vista dalla luna, se non un grande sasso?