Trenta giorni dopo la tua morte.
Rose di parole ancora non dette.
Trigesima.
Parole seguenti concepite nel giorno ventisette aprile duemiladodici, tre giorni prima della tua morte.
Trani. Nella tua cucina.
Mi chiedo il perché alcune cose vengano in mente solo nel momento in
cui non possono essere più attuate. Avrei voluto, sì. Avrei fatto, anche. Tanti
condizionali, uno solo: la vita. Devi sapere che mentre poche ore fa in
ospedale carezzavo forse per l’ultima volta la tua mano, gran parte della mia
vita ho visto scorrere nella mente. Un
ricordo in particolare è tornato laddove vivono i miei sadici elicotteri
immateriali. Siamo metà anni ’90, la luce in questa visione è immensa. Mai
potrei confondere la luce di questi anni poiché in essi c’è il riflesso di
coccinelle imbalsamate; stupende, amabili, a pois, rappresentati della vivida
natura. Eppure sono incastrati, tutti gli anni che li compongono rimangono
così, imbalsamati. Io avevo forse sei anni, mia cugina che io ricordo con la
faccia di una coniglietta ne aveva otto e suo fratello il cerbiatto poteva
averne già dieci. Tuttavia la presenza di cerbiatto in questo ricordo non c’è
fin dall’inizio. In principio ci sono solo io, coniglietta, la nostra zia e la
nonnina. Affacciati ad un balcone, io e coniglietta guardavamo il mondo che per
noi era rappresentazione di ingenuità, così come i nostri occhi del resto lo
rivelavano. Cara coniglietta, adesso come percepisci il mondo? Triste è il
giorno in cui il bambino, non più illuso, perde il piacere del Natale. Quel balcone
è lo stesso a cui mi sono affacciato questa sera; non c’erano più castelli
stregati, non c’erano più nemmeno le palme che facevano da immense torri. Ho
solo visto una persiana e dentro di essa il buio, un balcone un po’ pericolante
e delle terrazze con semplici piante, forse desiderose di cure. Arriva
cerbiatto. Arriva cerbiatto che dice che vuole costruire una casetta di cartone
come quella che abbiamo davanti ai nostri occhi. Coniglietta dice che non si
può, perché le nostre casette sono finzioni. Cerbiatto dice che le casette
possiamo toccarle ed usarle, quindi non sono finte. Ora io dico: cerbiatto
aveva ragione. Ora io dico: coniglietta non aveva torto. Ora io affermo: tutto
è vero, finta è la finzione con cui ci
ostiniamo a rappresentare le cose, finta è la finzione che usiamo come tramite
per dipingere la nostra realtà. Una voce udibile da lontano ci distrae dai
nostri sogni architettonici: speculatori di puerili illusioni. Quella voce poco
scandiva le parole spalancate sul mondo al di là di un altoparlante, tuttavia
il suono era sempre più intenso ed iniziava ad avvicinarsi verso il nostro
balcone e verso i nostri castelli imbevuti di finzione. La zia che in effetti
ricordo con la faccia di un’orsacchiotta ci diede mille lire, la nonna con il
musetto di un volpino sottrasse dalla sua sottana una cinquecento lire. Io e
cerbiatto ci affrettammo nel scendere le scale per fermare il camioncino che
inesorabilmente continuava a emettere parole. Si fermò proprio vicino al
castello e qui io e cerbiatto comprammo
dal venditore ambulante due gelati e un ghiacciolo, quest’ultimo per
coniglietta. Vedevo la nonna che ci controllava dal balcone, seduta su una
sedia a godere del bel sole il quale questa terra a giugno ricopre.
Ricordo i suoi capelli ricci già un po’ ingrigiti e la sua veste larga ed
estiva che scendeva fino alle ginocchia. Poi penso che ora è in ospedale,
mentre attende l’avvenire della sua morte. Nessuno si è accorto del suo male. Penso
a mia madre che rimpiange una vita da immigrata in una città non vicina. Non ha
visto sua madre lentamente andare nel suo declino per curare come badante la
madre di altri figli a loro volta emigrati lontano per fare i dottori. Emigrazione:
non poter vedere tua madre morire, non poterla curare ad ogni sua paura o
vederla invecchiare, non poter guardare le sofferenze dei tuoi fratelli, non
poter nutrire anche solo attraverso lacrime la propria terra scottata e prosciugata
dal sole, non poter curare quell’abbandono che rimane lontano nel tempo eppure
presente ogni giorno in cui si aprono gli occhi e si è lontani dal luogo in cui
il proprio corpo è nato. Ecco cos’è l’emigrazione: un continuo “non poter”.
Prima di continuare a concentrarmi sulle immagini che costituiscono il mio
ricordo d’infanzia, torna in mente quello che mi ha raccontato mia cugina
coniglietta la mattina stessa di questo giorno, e cioè che la sua migliore
amica sarebbe partita per lavoro verso la Germania, dopo anni di assoluta nullafacenza.
Germania dove? Germania Monaco. Il suo primo volo aereo, mi disse. Non aveva in
tasca un soldo. Il suo primo volo aereo coincide con il viaggio che
probabilmente la porterà via per sempre dalla sua terra; diventerà
un’immigrata. E chi curerà sua madre, quando ne avrà bisogno? Dietro le foglie
dei fichi, dietro ogni balcone del paese addobbato con luci pendolanti in onore
alla madonna in processione, dietro le strade sporcate dai volantini dei
politicanti e dai petali di rose gettati dalle finestre in onore alla statua e dietro
l’odore di gelsomini unito a quello di paglia bruciata inumidita, si nascondeva
l’orrore, il pianto, la voce di una terra ancora silenziosamente ma
violentemente abusata. Io sentivo le sue urla, la sentivo gridare dall’orrore
di dover vedere i suoi stessi figli rinnegarla, maltrattarla, venderla alla
corruzione. Terra maledetta. Terra maledetta, ho pensato.
Allora nel passato migliore io e cerbiatto ancora piccoli mangiammo il
gelato stranamente senza sporcarci, parlando di chi saremmo stati da grandi. Io
nel mio passato mi consideravo già un cantante, coniglietta sarebbe diventata
un’attrice mentre suo fratello quel cerbiatto sarebbe dovuto essere uno che
smontava i pezzi per poi rimontarli e rismontarli. Adesso forse non siamo più ciò
che vorremmo realmente essere tanto quanto quello che banalmente siamo; noi
stessi. Finimmo il gelato, coniglietta non volle più il suo ghiacciolo.
Coniglietta mangiava sempre poco. La zia orsacchiotta disse che se una cosa non
la si vuole non bisogna comprarla. La nonna che pareva davvero un volpino disse
che almeno il ghiacciolo potevi mangiarlo. Non volevi nutrirti forse perché nel
tuo cibo per te si nascondevano pietanze di critiche condite con sminuenti
parole. Ora però voglio dirti qualcosa che già sai; nella commiserazione si
nasconde il demonio vestito con amore blando, che col calare della sera tramonta
per non farsi più rivedere lasciando l’amaro sapore dell’illusione; nell’indifferenza
si nasconde l’odio che sotto queste vesti sorride di nascosto ad ogni nostro
ostacolo e solo nella preoccupazione talvolta si nasconde l’amore, quello
semplice che sbaglia nelle azioni, poiché nutrito da umanità per forza
imperfetta. Adesso uno dei personaggi di questo mio ricordo sta andando via, anzi
è già andato via. Allora mi viene da pensare ad una cosa: noi siamo finti. Noi
siamo finti come le casette che cerbiatto voleva costruire, siamo finti come le
illusioni che ci ostiniamo ad inseguire, siamo finti come l’esistenza dei
morti. Poiché quell’essere era caro in vita, ma la morte tutto distrugge e il
distrutto per definizione non esiste più, ciò che esiste è il solo ricordo del
distrutto, è poi la nostra memoria che lo concepisce come un valore. La morte credo
non sia un dolore o comunque il dolore che si sente è solo il riflesso della
vita, che chiede di proteggere ciò può rigenerare il nostro essere umani. Ora
anche lei che è morta è finta, finta come i capelli di una bambola e di fatto
in essa più nessun ricordo è custodito ma anzi è lei divenuta memoria. Ecco, noi
siamo finti finché non diveniamo custodi di ricordi che a loro volta
custodiscono altre persone. Ora dunque vivono nei ricordi e per quanto
alcuni siano dolorosi, solo i ricordi
incidono e noi solo incisioni siamo. Incisioni, che da un secondo all’altro
terminano.